Villa Azzurra, l'inferno dei bambini dimenticati
Etichettati come "pazzi" e internati in un luogo che doveva proteggerli, questi bambini sono stati invece vittime di abusi, trascuratezza e un crudele silenzio. Questa è la storia di un'istituzione ch
Angelo è un bambino di soli tre anni quando viene portato a Villa Azzurra, un istituto per bambini con problemi mentali. Il nome, che evoca immagini di serenità e pace, nasconde invece un luogo di sofferenza e abbandono. La famiglia di Angelo, stretta nella morsa della povertà estrema, non è in grado di occuparsi di lui. Nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta, la società non offre alternative: i bambini come Angelo vengono etichettati come "pazzi" e rinchiusi in questi istituti, lontani dagli occhi e dal cuore del mondo esterno.
Villa Azzurra è un luogo disumano. I suoi corridoi freddi e spogli risuonano dei pianti e delle grida dei bambini, trattati più come prigionieri che come esseri umani. Quando Angelo si comporta in modo vivace, viene legato a un termosifone, una punizione che non fa altro che alimentare la sua rabbia e disperazione. Quando la sua aggressività diventa incontrollabile, viene sottoposto all'elettroshock, una pratica che invece di curare, distrugge lentamente la sua mente e il suo spirito.
Nel mezzo di questa sofferenza, Angelo trova un rifugio nei piccoli dettagli che riesce a scorgere attraverso la finestra della sua stanza. Osserva i merli che volano liberi nel cielo e si aggrappa a quell'immagine come a un’ancora di salvezza. "Se riesco ancora a vedere i merli," pensa, "allora non ho perso completamente la mia mente. C'è ancora speranza per me."
Ma Angelo non è solo in questo inferno. Come lui, molti altri bambini sono intrappolati a Villa Azzurra, vittime di maltrattamenti, denutrizione, e abbandono. Le condizioni igieniche sono deplorevoli, e il personale che dovrebbe prendersi cura di loro spesso si trasforma nei loro carnefici. Le bambine, in particolare, vivono nel costante terrore di abusi da parte degli adulti che dovrebbero proteggerle.
Bambini legati ai termosifoni, lasciati morire di freddo su un balcone in inverno solo perché colpevoli di essersi fatti la pipì addosso. Bambini lasciati senza cibo per punizione, abbandonati a loro stessi, su cui venivano eseguiti esperimenti in cui spesso non sopravvivevano.
Il "trattamento medico" del dottor Giorgio Coda, noto tristemente come "L'elettricista di Collegno", consisteva nell'applicazione di scariche elettriche prolungate alla testa e ai genitali dei pazienti. Queste scariche non facevano perdere coscienza al malato, ma provocavano dolori lancinanti. Secondo Coda, questo metodo avrebbe dovuto curare i pazienti. Il trattamento era chiamato "elettroshock" quando applicato alla testa e "elettromassaggio" quando praticato sui genitali, anche se a volte i due termini erano usati come sinonimi.
Nella maggior parte dei casi, il trattamento veniva eseguito senza anestesia, e spesso senza l’uso di pomata o una protezione di gomma tra i denti del paziente, il che poteva causare la frattura dei denti stessi durante gli spasmi provocati dalle scariche elettriche.
Durante il processo, Giorgio Coda ha ammesso di aver praticato circa 5.000 di questi "elettromassaggi", senza mostrare alcun segno di pentimento per le sofferenze inflitte ai suoi pazienti.
Villa Azzurra è una prigione istituzionalizzata, un simbolo di un’Italia che, prima della legge Basaglia del 1978, preferiva nascondere i suoi figli più vulnerabili piuttosto che cercare di comprenderli e aiutarli.
Questa Vicenda è un mosaico di dolore e impotenza, cucito insieme dal senso di colpa che non appartiene solo a me, ma che dovrebbe essere condiviso da tutti noi. Perché ogni volta che uno di quei bambini si affacciava alla finestra, cercando con i loro piccoli occhi di vedere un mondo che non conoscevano, dall’altra parte c’era qualcuno che distoglieva lo sguardo, considerandoli nient’altro che "scarti sociali."
"Scarti sociali" è un’espressione agghiacciante, ma ancora oggi tristemente attuale. Mi porta a riflettere su come, ancora nel presente, giudichiamo le persone in base al colore della pelle, al loro livello sociale, o a una disabilità. Ci arroghiamo il diritto di essere giudici severi, allontanandoci dalla conoscenza e relegando noi stessi nell’angolo più buio dell’ignoranza, prigionieri di una cultura che rifiuta il diverso…diverso da chi?
La vita è una questione di fortuna, e se stai leggendo queste parole, significa che tu sei una delle persone fortunate. Ma questa fortuna porta con sé una responsabilità: quella di non distogliere mai lo sguardo dai più deboli e di fare tutto il possibile per trasformare il mondo in un luogo in cui nessun bambino debba mai più sentirsi come un "rifiuto" della società.
Fotografie Mauro Vallinotto