Franco e Maria sono i genitori di Carlo, 32 anni, malato terminale.
Carlo è un giovane ingegnere, bravo, promettente e fino a pochi anni fa faceva un lavoro che lo appassionava. Vive a Milano ma è nato a Modena, conduce una vita da ragazzo, va in barca a vela con gli amici, il sabato sera va a ballare ed ama giocare a calcetto.
Poi un lunedì mattina arriva un malore, era in ufficio ed improvvisamente si accascia sulla scrivania. I colleghi corrono da lui, lo scuotono, gli offrono un bicchiere di acqua poi terrorizzati chiamano l’ambulanza. Arrivano i sanitari, lo visitano, a prima vista sembra uno svenimento, Carlo si riprende e dà la colpa ad una cattiva abitudine che ha da quando vive in una grande città. La mattina saltava la colazione, la paura di non riuscire ad arrivare al lavoro in orario era più forte della fame. Lo portano al pronto soccorso del vicino ospedale per alcuni accertamenti, non avvisa casa, inutile far preoccupare i genitori, tanto lo avrebbero dimesso da lì a poco. Invece passano le ore, i medici si fanno attendere, Carlo ha come l’impressione che alcuni di essi lo evitino, poi arriva un ragazzo con il camice bianco, dal viso ha la stessa età di Carlo, è uno specializzando. Gli si avvicina e si siede accanto a lui. Quel giovane medico si chiama Giovanni. Carlo riesce a leggere solo il nome, il resto dei caratteri stampati sul cartellino sono illeggibili, forse l’usura del tempo o i numerosi lavaggi hanno quasi cancellato il resto.
Il dottore prende in mano la cartella con gli esami appena eseguiti, gli spiega quello che non torna, ci sono dei valori sballati che vanno sistemati o quantomeno chiariti. Gli dice che dovrà eseguire una Tac ed altri esami approfonditi, deve restare in ospedale, un ricovero di qualche giorno e poi potrà tornarsene alla sua vita.
Carlo sbotta, non capisce, vuole sapere cosa sta succedendo. E’ un ingegnere, è abituato alla riflessione, a calcolare ogni minimo dettaglio, non ci sono spazi per le supposizioni nella sua testa, tutto deve avere un filo logico e razionale.
Il giovane medico fa un respiro profondo, poi improvvisamente, in un impeto di coraggio pronuncia una parola, un unica parola: “ Tumore. Carlo è probabile che tu abbia un tumore”
L’aria si ferma, arriva il gelo. Gli occhi di Carlo rimangono immobili, cambiano tonalità di colore, rimane a bocca aperta, non proferisce parola. Tutto è sospeso nell’aria, il tempo si è fermato, si sente solo il battito del suo cuore che a tratti corre lento ed in altri velocissimo.
Giovanni e Carlo si fissano come due tigri prima dello scontro, poi il medico abbassa la testa, gli da una pacca sulla gamba. “ Coraggio, risolveremo tutto”.. poi si alza ed esce dalla stanza.
Passa qualche anno, cicli di chemioterapia, interventi chirurgici, tanta convalescenza, ci sono miglioramenti, ma minimi, fino a quando non gli rimane altro che un letto, quello della sua cameretta, piena delle sue cose, dello stereo a cassette, dei suoi ricordi. Dentro il suo cervello ha un intruso che si nutre di sé, della sua vita e che ingordo cresce, ingrassa senza limiti.
Le gambe da qualche tempo non rispondono più, gli occhi non vedono, vive nel buio della sua stanza ascoltando la musica alla radio.
Nel frattempo la sua vita, quella del giovane ingegnere, del ragazzo che andava in barca a vela ed in discoteca, non è più tornata. Comincia a rendersi conto che il Carlo di una volta non c’è e forse non tornerà più. Lo spirito non manca, ma ci sono momenti in cui è sopraffatto dal dolore, dalle notti passate in bianco, come il bianco delle lenzuola di un ospedale.
Ha solo la sua mamma e il suo papà, molti di quegli amici si sono vaporizzati, altri invece sono restati.
Un giorno però arriva la febbre, sta male, Carlo perde i sensi, non risponde, i genitori non sanno cosa fare, anzi fanno l’unica cosa sensata da fare in quei momenti. Alzano la cornetta e chiamano i soccorsi. L’ambulanza arriva in pochi minuti, i sanitari salgono in casa con il loro equipaggiamento e con la sensazione, come mi dirà in seguito un amico che lavora in ambulanza, dell'ignoto, perché fin quando non arrivi davanti al paziente non sai mai cosa troverai dietro quella porta semiaperta.
I soccorritori entrano in casa, Maria li porta subito in camera di Carlo, lo visitano, la situazione è seria, quel mostro che ha dentro lo sta divorando, ma in quel momento non ci sono i presupposti per un rischio di vita imminente.
Franco, il padre di Carlo è un uomo sfinito, una vita lontano dalla sua terra del sud arsa dal sole, si sente sopraffatto dalla disperazione ed alza la voce. La moglie cerca di calmarlo, uno dei soccorritori gli si avvicina, poi si allontanano e vanno in cucina. Franco inizia a parlare è un fiume in piena. Si lamenta della sanità, della qualità delle cure, ma in cuor suo quello che dice è il frutto della disperazione. Ad un certo punto fissa il ragazzo che è lì per suo figlio, lo guarda ed è chiaro che vorrebbe abbracciarlo. Ad un certo punto quel ragazzo con la divisa blu e gialla lo accarezza, ed è come se si spogliasse della sua posizione, per un attimo diventa il suo consolatore. Gli parla, gli dice che anche lui è un padre, che riesce a immaginare quello che sta provando. Franco piange, la sua corazza di uomo forte crolla, ma è solo un attimo, estrae dalla tasca un fazzoletto di stoffa con i bordi ricamati ,si asciuga le lacrime, lo ripiega e lo appoggia al tavolo della cucina. Tornano nella cameretta di Carlo, si decide di portarlo in ospedale per un controllo, Franco si calma. I soccorritori parlano tra di loro, devono trovare il modo migliore per trasportare Carlo, quel ragazzo non si muove, non vede, ha la stessa fragilità del cristallo. Il suo corpo è un unico pezzo immobile. Franco fa un respiro profondo, solleva il busto del figlio, lo abbraccia, lo stringe a sé come si fa con un neonato, poi si gira verso i sanitari ed insieme lo sistemano sulla barella, lo coprono per proteggerlo dal freddo. Franco rimane fermo sulla porta di casa, segue la scena con gli occhi lucidi mentre portano via il suo ragazzo . Nel frattempo Maria chiede scusa, abbassa gli occhi, poi li rialza e guarda i ragazzi dell’ambulanza in modo compassionevole, sa che sta perdendo suo figlio ed è una questione di tempo, forse giorni.
Maria è una piccola donna esile, cinquanta chili, vestiti compresi, gli occhi distrutti , accarezza il figlio, lo tranquillizza , ci parla, gli dice che presto tornerà a casa.
Sale in ambulanza, si siede vicino al suo ragazzo, gli stringe la mano, non gliela lascerà mai durante il viaggio.
Così il destino la trasforma nella Pietà di Michelangelo. Maria diventa un'opera d’arte, sorregge il capo del figlio che non riesce più a reggersi da solo, cerca di afferrare la vita di quel ragazzo che ha visto crescere e che ora sta scivolando via.
Carlo quella sera stessa lascia questa terra, come una foglia in autunno, cade, si appoggia al terreno e poi prende la prima bava di vento per volare via. Ora non ha catene, pesi, dolori, si è liberato di quell’ostacolo, la sofferenza è andata via, ha preso una strada diversa e si è dissolta.
Ho visto Franco e Maria assistere impotenti alla nascita al cielo del loro unico figlio. Impotenti ad occhi fissi e svuotati. La loro mano ha stretto quella bianca e fredda di Carlo fino all’ultimo.
Vorrei invece che un genitore potesse barattare con Dio la propria vita per salvare quella di suo figlio.