Il Bar Mokambo
Gianmarco vive per il suo bar, tra quei tavolini ed il vecchio Mivar a colori si susseguono storie e personaggi, schedine del totocalcio ed un pizzico di nostalgia.
Gianmarco aveva cinquantasei anni, pesava novantasei chili e sognava la pensione da quando ne aveva venti, viveva di poker, cocktail, ore notturne e nei ritagli riusciva a dedicare qualcosa alla sua famiglia.
Già, perché in cinquantasei anni aveva avuto il tempo di partire volontario per una guerra non sua, fare il barman sulle navi da crociera, il gestore di un rifugio sulle Dolomiti, correre in auto, sposarsi con Federica e mettere al mondo Alice, ingrassare, per poi tornare a fare il barman nel locale in cui aveva avuto inizio la sua carriera, il “Mokambo”. Fino ad allora era stato il classico tipo che usava un unico bagnoschiuma per lavarsi il corpo, i capelli, per fare il bucato a mano e pure la lavatrice.
Ecco, dopo questo giro immenso durato quasi trent'anni, abbiamo avuto la fortuna, un giorno, di incontrarci di nuovo e rispettivamente siamo diventati l’uno il padre confessore dell’altro.
Io e Gianmarco ci siamo conosciuti da giovani, quando lui lavorava come barista nel locale di un certo “Manocorta”, un tipo losco che aveva un bar gelateria in una strada del centro storico, una laterale di via San Gottardo. Una leggenda del paese narra che sotto il letto nascondesse una cassa da morto acquistata da un rappresentante di passaggio a prezzo di fabbrica. Difficile conoscere la verità, qualcuno giurava di averla vista, altri invece che la storia fosse stata inventata per attirare clienti, fatto sta che la storia della bara è rimasta nella memoria storica del paese e resiste ancora oggi.
Quando, dopo tanti anni e tanti soldi messi da parte, Gianmarco riuscì a rilevare l’attività, prese l’arredo e lo trasferì da tutt’ altra parte, in un locale buio e umido dove nessuno con un briciolo di salute mentale avrebbe aperto un bar. All’inizio era una topaia, una vecchia rimessa ereditata da sua zia Rosa: pareti di mattoncini e pietra, umidità ovunque, ragnatele a fare da carta da parati, pavimento in un materiale a me sconosciuto misto a cemento. Non era possibile arrivare in macchina, non si poteva star seduti all’esterno e non si poteva bestemmiare perché dietro c’era la chiesa di San Biagio, un luogo insalubre dove ogni anno chi ci credeva andava a farsi ungere la gola per proteggersi dai mali di stagione.
Gianmarco non rinnovò minimamente il mobilio: mantenne volutamente il vecchio bancone con il piano in acciaio, le stesse vetrine, lo stesso poster di Ernesto Calindri con il bicchiere di Cynar, ma soprattutto, sfidando ogni regola relativa all’igiene, rimise all'opera la vecchia zuccheriera in acciaio inox, con tanto di cucchiaini d’epoca dal manico lungo.
I cornetti e qualche dolce – poca roba, perché di colazioni ne serviva veramente poche – glieli portava Rosato, un uomo dal baffo grasso sulla sessantina che aveva una piccola pasticceria artigianale abusiva. Al piano di sopra invece abitava la signora Salerno vedova Castiglioni, donna insopportabile dai capelli cotonati e dall’odore di varechina, di professione gattara, elemento di disturbo del quartiere, arrivata lunga all’appuntamento con la morte. Aveva il balcone pieno di fiori, soprattutto Gerani, che annaffiava puntualmente al calar del sole, avendo cura di far colare tutta l’acqua davanti all’entrata del bar. Era una donna fortunata perché Gianmarco è sempre stato un uomo dalla pazienza infinita. Sopportava, sospirava e andava oltre.
Credo di essere stato l’unico che sia mai stato in grado di calmare la vedova quando i clienti più accesi uscivano per fumare e parlare. Eppure a me quel posto piaceva. E non solo a me, dirò di più. Approfittavo delle aperture notturne per andare lì e scrivere in compagnia di un caffellatte corretto al Gin; di mestiere facevo “l’ultimo cliente”.
Dovete sapere che Gianmarco di giorno lavorava part time al Comune, faceva l’impiegato a tempo perso all’ufficio acquedotto, finiva alle sedici, tornava a casa, dormiva un oretta, poi cenava con Federica e Alice e verso le ventuno andava ad aprire il suo bar. Il Mokambo non aveva un orario preciso di chiusura, andava a sentimento. Io ne ero entusiasta. Ho frequentato quel locale per cinque anni, fino a quando ho vissuto in paese.
La nostra amicizia si è nutrita di quelle notti passate insieme, quando spesso rimanevo da solo e lui mi raggiungeva al tavolo, il numero cinque, quello vicino al jukebox. Arrivava con un Negroni, si sedeva davanti a me, e tra un cicchetto e una Marlboro iniziavamo a parlare, soprattutto delle nostre vite, della società, dei nostri guai e dei personaggi che raccontavo nei miei libri.
Più di una volta mi ha regalato delle idee geniali che poi ho buttato nei miei racconti; ho vestito i miei personaggi con la personalità di Gianmarco, con la gentilezza di un uomo d’altri tempi. Ho riempito pagine intere degli odori tipici di un bar, quel misto di liquore e fumo di sigarette, di dolci appena sfornati, paste alla crema e di poltroncine in velluto rosso.
Ho riversato in quelle pagine i suoi pensieri, i suoi racconti in giro per il mondo, i suoi amori passati e tanto di quella figlia che ogni sera salutava prima di andare a lavorare.
A lui invece ho raccontato quello che non posso dire a voi: delle mie insofferenze e di quell’uomo che sarei voluto essere e che non sono riuscito a diventare.
Brindavamo alle nostre sfighe, ma anche ai nostri successi, piccoli, ma comunque successi.
Durante quelle notti passate a parlare accadeva di tutto, ad esempio si univa a noi Victor Costa, un signore sulla settantina che abitava su Corso Bandiera e che da giovane aveva suonato la batteria nell'orchestra di Bruno Martino.
Soffriva di emorroidi, e anche se era stato operato due volte da un mio caro amico di infanzia, il Dott. La Grotta, di notte il suo problema si riacutizzava, così la moglie lo cacciava dal letto e lui, insonne cronico, si vestiva e ci raggiungeva al bar. Portava perennemente un cappello dalla fantasia scozzese, baffi e pizzetto ormai bianchi e sigaro toscano tra i denti. Personalmente ho sempre amato i suoi racconti, bastava che gli offrissi un Vodka Martini che partiva come un treno e iniziava a raccontare delle tournée in Europa, dei night club invasi dal fumo di sigaretta, del jazz e delle donne che ascoltavano cantare il “Re del Night” appoggiate al pianoforte. Ci raccontava con enfasi di quegli amori di una notte, vissuti nelle camere degli hotel, del freddo di Stoccolma e di quella volta che gli avevano rubato la batteria in un locale di Parigi.
Gianmarco di solito annuiva con la testa, come per dire “ti capisco”, io invece rimanevo paralizzato e affascinato dai suoi racconti di quella vita passata, e guardavo quegli occhi di anziano, ancora lucidi, quegli occhi che avevano visto ottant’anni passare davanti a loro come se fossero un secondo.
Potrei raccontarvi anche della signorina Masciangelo, che abitava nella casa di fronte. Puntualmente alle due di notte portava Peppino, il suo cane di razza ignota, a fare la pipì; condividevano la vecchiaia, si sorreggevano a vicenda.
Aveva dietro di sé diverse primavere, gli occhi vividi e ancora presenti, nel suo sguardo si leggeva il futuro sempre più incerto. Le sue giornate erano tutte uguali, misure di tempo con la stessa tonalità di grigio, come la sua malinconia, la sua solitudine. Indossava un trucco leggero e anche se i segni del tempo avevano marcato dei solchi sul suo corpo, il viso raccontava di una giovane donna, bella, dai modi gentili. Era rimasta sola dopo lo scoppio della Seconda guerra. Prima di partire per il fronte russo, il suo fidanzato gli aveva dato appuntamento davanti alla chiesa di Sant’Antonio, sotto la quercia che introduce il viale di ingresso al convento. Dopo la fine del conflitto il governo gli aveva fatto recapitare una lettera in cui si dava per disperso il suo Nicolino, inghiottito dal bianco puro della neve. Ma lei lo sentiva ancora vivo, in cammino, che stava tornando. Così aveva vissuto aspettandolo per quarant’anni. Lì, nel punto in cui si erano abbracciati l’ultima volta. Tutti i giorni, sempre vestita in modo elegante, con il suo cappellino a fiori e con un filo di trucco.
Di quel ragazzo, del suo Nicolino, non si seppe più nulla. Ora aveva Peppino, si accompagnavano insieme. Lei ogni tanto si sedeva sulla panchina verde sotto la quercia, quella poco distante casa sua, e gli cominciava a parlare. Peppino con un salto la raggiungeva, si distendeva, appoggiava la testa sulle sue gambe, si accucciava, chiudeva gli occhi e ascoltava le parole di lei. Così le loro notti, continuavano dietro i vetri della città, dentro quella sala d’aspetto che era diventata la loro vita.
Come non ricordare poi Giustino “La Guardia”, il metronotte, che passava con la sua bicicletta Atala verniciata da lui stesso di nero. “Come la notte”, diceva se gli domandavi il motivo. “Per mimetizzarsi”. Quella bicicletta era il suo mezzo di ordinanza, di cui andava fierissimo e con cui pattugliava il centro storico, l’unica zona a lui riservata. Era un posto tranquillo e con pochi negozi perfetto per uno vicino alla pensione. Il suo principale lo sapeva e gli aveva riservato apposta quel quartiere. Quando passava dal bar, apriva la porta del locale e faceva un cenno con la testa a Gianmarco; lui contraccambiava alzando la mano come per dire che andava tutto bene. Quando arrivava l’inverno, magari accompagnato da qualche nevicata, si tratteneva per bere un caffè caldo oppure per prendere l’antiacido per la sua gastrite cronica. Poi si salutavano, chiudeva la porta, saliva sulla sua bici e scompariva nella notte.
Il Mokambo è ancora aperto, sempre al solito posto dietro la chiesa di San Biagio. Non è difficile trovarlo, basta scendere gli scalini di vicolo dell’Osteria e seguire il profumo di pomodoro e basilico che arriva dalla finestra della signora Ida per trovarsi l’insegna del bar sulla testa. Andate dopo cena, è meglio, troverete Gianmarco seduto sullo sgabello dietro al bancone, il televisore Mivar sicuramente acceso e Victor Costa che fa il solitario al tavolino vicino al telefono a gettoni. Sì, a gettoni… e funziona ancora.
Dite che vi mando io.