Ciao! Ti aspettavamo!
Un volontario di #Emergency ci racconta i suoi sei mesi passati nell'ospedale di Kabul
“E’ iniziato tutto una sera a Milano, durante un incontro dove era presente Gino Strada, ad onor del vero a quel tempo non sapevo neanche chi fosse questa persona. Con lui c’erano Pietro Ingrao e Don Luigi Ciotti dell’associazione Libera. Rimasi colpito, davanti a me, avevo delle persone che a modo loro, secondo le loro possibilità e le loro capacità, stavano facendo davvero qualcosa di concreto per gli altri. Erano tre persone, con tre storie diverse, magari lontano tra di loro ma con il comune denominatore che il loro lavoro, stava migliorando le condizioni di vita di migliaia di persone. Quella sera si è accesa una scintilla dentro di me, ho realizzato che anche io potevo fare qualcosa, anzi, dovevo far qualcosa.”
Aridiano inizia così il suo racconto, tra una spremuta d’arancia e la musica di sottofondo nel bar di Carpi in cui ci siamo dati appuntamento.
Ha 56 anni, vive in un paese della provincia di Modena ed oltre ad essere un promettente sassofonista lavora in ospedale come tecnico di radiologia.
E’ nato tra la galaverna e la nebbia, che in certi periodi è così fitta che ti impedisce di vedere persino le tue mani. Quella della bassa modenese è una nebbia così sottile e densa, che si può quasi toccare e tagliare a fette come il pane, ma che è sorella e compagna di chi è nato da queste parti.
Non ci vediamo da qualche anno, ma l’amicizia che ci lega è sempre rimasta lì ferma ad un angolo, senza mutare, incorrotta dal tempo.
Ordiniamo due spremute d’arancia, ho portato con me mio figlio Francesco, ha solo quattro anni, a quell'età si è ancora lontano dalla guerra, dalle preoccupazioni, ma tra un disegnino e il panino al prosciutto che sta mangiando ascolta incuriosito. Preparo il registratore, io ed Aridiano ci guardiamo negli occhi poi schiaccio il tasto Rec. Si parte.
Mi racconta che dopo quell’incontro a Milano, una volta tornato a casa si era messo subito all’opera bombardando la sede di Emergency con i suoi curriculum, quasi in modo ossessivo. Fino a quando un giorno, gli arriva una lettera in cui lo convocano a Milano per un colloquio, dove lo ringraziano per la disponibilità, rimandando in un secondo momento la collaborazione. Torna a casa ma non si dà per vinto, continua ad insistere ed a scrivere, fino a quando la sua tenacia viene premiata. Un giorno il postino gli recapita una lettera in cui finalmente il suo sogno si realizza. Dentro quella busta troverà l’ingaggio per la sua prima missione a Kabul. In quel momento viene assalito da tantissime domande, sarò all’altezza? Cosa andrò a fare?
Sale in auto e parte per Milano, da casa sua ci sono centocinquanta chilometri che lo separano da quell’ufficio. Una volta arrivato gli spiegano tutto, li sono bravi, lo tranquillizzano, lo aiutano a controllare la paura che è normale in quei casi. Torna a casa, racconta tutto alla sua compagna, alla sua famiglia, da cui riceve il pieno appoggio, gli infondono coraggio, anche sua madre, ottantenne lo esorta “ Devi farlo Aridiano”! Tutto questo per lui è come un abbraccio che custodirà per tutto il tempo della missione.
Arriva il giorno della partenza, faceva freddo e l’aereo che lo avrebbe portato a Kabul stava scaldando i motori. Ha un ricordo divertente, quello al check in e dell’operatore che guarda il suo biglietto con la destinazione finale. Adesso sorride divertito e ripensa all’espressione del controllore appena legge Kabul, quest’ultimo gli lancia un’occhiata perplessa, poi gli restituisce i documenti. Ha un'immagine ben precisa del suo arrivo in Afghanistan, di quel momento in cui scende dall’aereo e viene avvolto dall’odore acre della plastica bruciata. La stessa plastica che vedrà fusa sulla carne dei pazienti, di quei pochi sopravvissuti alle bombe o ai fornelli alimentati a kerosene e che arrivavano in condizioni critiche in ospedale. Fuori dall'aeroporto ad aspettarlo trova il logista di Emergency appoggiato al cofano della Jeep bianca. Si vedono, si riconoscono, l’uomo gli va incontro, gli stringe la mano e lo accoglie con una frase che potrebbe apparire scontata, ma in quel momento riempie il suo cuore : “ Benvenuto Aridiano ! Ti aspettavamo!”
Adesso i suoi occhi si accendono, ricorda la felicità e la bellezza di quel momento, di quell’incontro tra due sconosciuti al tempo stesso legati dallo stesso fine, quello di restituire al mondo un pezzo di umanità perduta.
Arriva in ospedale, per un attimo quella felicità si mette da parte, ora è il momento dei dubbi. “Sarò in grado?” “Riuscirò a comunicare?”, “Sarò di intralcio?” ricorda questo momento in modo allegro, disinvolto, come se fosse scampato ad un pericolo.
In dieci giorni però quelle paure svaniscono, tutti i dubbi e tutte le domande avevano fatto posto al coraggio, era bastato poco per trovarsi già a suo agio con tutti.
Beviamo un sorso di aranciata, lui si sistema gli occhiali, Francesco prende la mia Moleskine ed inizia a disegnare, anzi, come dice lui, a prendere gli appunti.
Aridiano fa un respiro, arriva il momento di parlare della guerra, di quando i suoi occhi, per la prima volta vedono quello di cui è capace un uomo. Lo fisso, il suo sguardo si perde verso un punto in alto dietro di me, forse cercano una risposta a quella domanda, una risposta che è difficile ed al tempo stesso facile da trovare.
“Appena sono salito in reparto, ho realizzato che quei pazienti non si trovavano lì per una malattia, ma a causa di un'arma creata da un tuo simile e concepita per uccidere”. Io lo incalzo, gli chiedo delle tipologie di traumi trattati, di quello che ha visto durante la sua permanenza a Kabul.
Si ferma, gesticola con le mani e come in un viaggio immaginario, mi porta insieme a lui nel reparto di pediatria dell’ospedale. E’ un viaggio doloroso nei ricordi, dagli odori alle immagini, tutto è sofferenza, una sofferenza portata con dignità dai bambini afgani, bambini già adulti che non piangono mai.
La devastazione della guerra è sotto i suoi occhi, la prima volta non riesci a dire nulla ,come in uno di quegli incubi in cui vorresti urlare ma non hai la voce, guarda con i suoi occhi i danni provocati dalle mine antiuomo su quei piccoli corpi. Quelle gambe, che prima correvano e giocavano non si riconoscono più, la potenza dell’esplosione è devastante, spezza le ossa, lacera la carne, diventano come i tentacoli di un polipo, perché l’energia sprigionata non è progettata per uccidere, ma per rendere invalidi quei poveri bambini.
A quel punto non puoi fermarti, ti concentri, metti in campo le tue conoscenze e vai avanti con il tuo lavoro, così la motivazione che ti ha spinto a partire diventa la linfa che ti da la forza di continuare in quella direzione.
L’ospedale è sempre pieno, nelle sale operatorie si lavora senza sosta, non ci si può fermare, vieni invaso da un senso di impotenza perché le vittime di guerra arrivano in continuazione, non ci sono momenti di tregua , un susseguirsi incessante di orrore. In tutto questo però, aveva trovato una dimensione, il suo posto, dove l’insieme di quelle esperienze assumeva una forma e lo rimetteva in pace con il mondo.
Era diventato una di quelle gocce che formavano quel mare di mani tese per aiutare.
Far parte di Emergency significava far parte di un'idea rivoluzionaria e questa è stata l’ossessione di Gino Strada, rendere tangibile il concetto di uguaglianza prestando la propria opera, come se stessimo in Italia o in qualsiasi altro paese occidentale.
Questa idea rivoluzionaria, contrasta e vince la qualità della morale, che è rimasta indietro, stiamo andando avanti con la tecnologia ed il progresso, rincorriamo una felicità effimera nelle cose banali, superflue e stiamo lasciando indietro il valore dei rapporti umani, che mano mano vanno degradando.
Ci fermiamo un attimo, finiamo di bere le nostre spremute mentre Francesco continua con i suoi appunti, che alla fine sono geroglifici e disegnini di personaggi immaginari.
Gli chiedo di raccontarmi di Kabul, della città, di quello che ha conservato nella sua memoria.
“Nei miei ricordi, il cielo di Kabul è fatto di elicotteri americani, i Chinook, quegli elicotteri enormi con due rotori che servono a trasportare armi e truppe. Li vedo ovunque giri lo sguardo, poi un dirigibile argentato enorme sulla città, sembra immobile e forse lo è. Poi le montagne, messe lì dalla natura come se fossero cinta murarie, che hanno la stessa tonalità di colore della sabbia del deserto. Infine la polvere, tanta polvere, l’inquinamento e la neve che diventa subito nera. Le mie passeggiate poi, quelle volte in cui ero libero. Mi ricordo di Flower Street, una via famosa negli anni sessanta, camminavo e guardavo i negozi, volevo conoscere quella realtà. Sono andato sempre solo, senza nessuno armato al mio fianco, perché Emergency non ha personale armato da nessuna parte. Fuori dall’ospedale ci sono delle guardie, ma in realtà sono dei portieri che ti aiutano anche ad attraversare la strada.”
Poi mi racconta di quella volta che era al telefono con la sorella ed improvvisamente inizia a sentire degli spari vicino all’ospedale, un conflitto a fuoco che andrà avanti per quarantotto ore con le pallottole vaganti che entravano in corsia rompendo i vetri delle finestre.
Si trovava con il suo collega afgano, una fisioterapista ed un ortopedico, andarono a ripararsi in radiologia, perché avevano ricevuto ordini chiari di rinchiudersi e non circolare dentro l’ospedale.
Aridiano ricorda la paura, perché non aver paura è da cretini e su quest’ultima parola marca il tono, ci tiene che io la scriva.
La paura si gestisce stando insieme tutti in una stanza, ognuno ha il suo metodo, c’è chi vuole parlare, chi cerca il silenzio, alcuni si rinchiudono in uno stanzino. La notte dell’attacco andò nel suo alloggio, cercando di stare il più attento possibile insieme a Sheer, un pastore afgano bianco e nero. Quella notte l’avevano passata insieme, il suo amico a quattro zampe era rimasto accanto al suo letto condividendo la paura, si erano fatti coraggio a vicenda.
Arriva il giorno della partenza, il momento in cui deve lasciare l’ospedale, i suoi colleghi e tornare in Italia, alla sua vita di sempre, ma accade qualcosa di imprevedibile.
Alle ore 4.03 di domenica 20 maggio un sisma, di magnitudo pari a 5.9 gradi Richter, scatena tutta la sua furia sul territorio compreso tra la bassa modenese ed il ferrarese.
Ci sono crolli dovunque, devastazione, feriti e numerosi morti.
Aridiano viene a saperlo durante una telefonata dalla sorella, lei gli dice che è venuto tutto giù ma che loro stanno bene, di non preoccuparsi. Nel frattempo i colleghi che erano con lui a Kabul, cominciano a fare ricerche su internet per rendersi conto della situazione in Emilia, ma era arrivato il momento di partire, così il giorno dopo si imbarca sull’ aereo che lo riporterà in Italia.
Il 27 Maggio atterra a Milano, il 28 dopo sei mesi passati dall’altra parte del mondo, fa ritorno a casa sua, il tempo di una doccia, di riposarsi ed il giorno successivo, dopo una scossa che riscrive la storia di quella terra, Aridiano non ha più una casa, venuta giù in cumulo di macerie.
Questa storia si conclude con i Polibus di Emergency che arrivano nel suo paese, tra le macerie ed i feriti.
Nella vita abbiamo due possibilità, quella di essere la mano tesa che ti tira a bordo un momento prima che tu vada a fondo, altre volte la vita stessa ti pone dalla parte opposta, sei tu, quello ad aver bisogno, a chiedere aiuto, a cercare quella mano che ti metta in salvo, all’asciutto o al riparo dalle bombe.