Fa caldo, è il due Agosto di un giorno di sole, ho una pistola giocattolo in mano e inizia tutto con un’immagine grigia, un corridoio vuoto nella penombra, il pavimento in marmo lucido che riflette la poca luce che entra dal finestrone alla fine del corridoio. C’è una persona con il camice bianco che vedo correre verso una porta, la apre e scompare frettolosamente come inghiottito dalle scale. Sento dei passi, mi giro, dietro di me qualcuno cammina lentamente, come se portasse un peso sulle spalle, ha il camice sporco di terra, ha lo stesso colore di quella terra con cui gioco nell’orto di mio nonno. Anni dopo realizzerò che quello sporco era la polvere dei calcinacci, quell’uomo era stato uno dei primi ad arrivare e scavare tra quello che rimaneva della Stazione centrale. Ho davanti mia madre, una ragazza giovane, forse troppo per le responsabilità che le sarebbero piombate sulle spalle, troppo giovane per vivere con il suo piccolo dentro un ospedale lontano da casa. Corriamo verso la finestra della camera, che dà sul cortile interno dell’ospedale, da lì si vede bene l’ingresso del pronto soccorso. Dopo tanti anni andando in quel reparto con mio figlio ho ritrovato quella stanza e quella finestra. Affacciandomi ho ritrovato la stessa visuale che avevo conservato sotto vuoto per tutti quegli anni. Quella strada era un tratto di via Massarenti all’altezza di via Paolo Fabbri. I miei ricordi con il passare degli anni non sono più nitidi, si offuscano, perdono colore, diventano trasparenti e fragili come cristallo e sono costretto a fissarli con l’inchiostro su un pezzo di carta per non disperderli negli anni. Ma un suono, incessante e stridulo è memorizzato nella mia testa, è quello delle sirene a fischio delle ambulanze. È un continuo via vai, senza interruzione, entrano nel pronto soccorso, scaricano e ripartono. Ora chiudo gli occhi, le sento che si avvicinano, sono ancora lontane, poi sento l’urlo di quei vecchi motori e lo sferragliare del cambio delle ambulanze Fiat 238.
Sono ormai a ridosso del pronto soccorso, le sirene entrano con violenza in camera, sfondano quasi il vetro della finestra e io ho paura, mi riparo nelle braccia di mia madre che mi stringono forte. Mi ricordo un giorno intero di sirene, fino a quando improvvisamente quei suoni cessano, spenti con un interruttore da una mano invisibile. Passa un’infermiera, mi sembra una suora vestita di bianco, mia madre la ferma e le chiede cosa stia succedendo. Quella signora, le prende la mano e la fissa.
–” Una bomba signora, hanno messo una bomba alla Stazione, ci sono tanti morti.
”
Il silenzio si fa più pesante, ingombrante, a ventinove anni non sei pronta ad assorbire una notizia del genere, vieni da un paese di pochi abitanti dove non accade nulla a parte le feste patronali a settembre. Io non realizzo, sono troppo piccolo per capire l’enormità di quella tragedia, mia madre mi abbraccia, passeremo la notte intera a dormire abbracciati nel lettino della mia stanza. I miei ricordi si fermano in quel momento, a quel giorno, poi la mia memoria preme il tasto Stop e si dà appuntamento al primo giorno di scuola.
In quella vita di mezzo, iniziata con il suono delle sirene e terminata con l’ingresso in prima elementare, a parte qualche foto, restano poche tracce nella mia testa, i ricordi fanno dei salti e si ritrovano a distanza di anni ancora qui.
Nella memoria di molti, c’è ancora l’odore di polvere ed esplosivo, qualcuno ha ancora del sangue rappreso dentro la sua anima, ed insieme alle vittime che hanno perso la propria vita, altri l’hanno lasciata li fino ai giorni nostri, i sopravvissuti come direbbe Primo Levi.
Ma se la memoria per molti si è trasformata nel cimitero della propria vita, per altri si è dimostrata corta, troppo corta.